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Terremoto della Marsica, il 13 Gennaio 1915, di magnitudo momento Mw=7, pari all’XI grado della scala Mercalli-Cancani-Sieberg: causò 30.519 vittime (nella città di Avezzano il sisma provocò la morte di 9.238 persone) e ingenti danni in numerosi centri abitati anche al di fuori della Regione Abruzzo.


Avezzano

- Ahimè! son tornato a Pescina, ho rivisto con le lacrime agli occhi le macerie; sono ripassato tra le misere capanne, coperte alcune da pochi cenci come i primi giorni, dove vive con una indistinzione orribile di sesso, età e condizione la gente povera - (Ignazio Silone).

Il primo centenario del disastroso Terremoto della Marsica, anche conosciuto come Terremoto di Avezzano, uno dei più distruttivi della storia sismica italiana, che causò più di 30mila vittime e ingenti danni in numerosi centri abitati anche al di fuori dell’Abruzzo, non è una ricorrenza facile della memoria a 70 mesi dalla tragedia aquilana. Il 13 Gennaio 1915, alle 7.53 del mattino, un violento terremoto colpisce l’Italia centrale, provocando danni gravissimi ad Avezzano, in tutta la Piana del Fucino e in numerose località della Valle Roveto e della media Valle del Liri.

L’intensità macrosismica stimata sulla base della distribuzione dei danni è dell’XI grado della scala Mercalli-Cancani-Sieberg, la magnitudo momento Mw è di grado 7 (sette). Le vittime, secondo studi recenti, raggiungono complessivamente il numero di 30.519. Il catastrofico terremoto della Marsica, documentato anche dal quindicenne Ignazio Silone, è uno dei disastri sismici e sociali più importanti e famosi della storia italiana, secondo solo, nel Novecento, al grande terremoto del 28 Dicembre 1908. Enormi distruzioni si registrarono in tutti i paesi della zona del Fucino, alcuni dei quali furono completamente rasi al suolo con un’altissima mortalità.

Avezzano, principale centro amministrativo della regione, perse più del 71 percento dei suoi abitanti (9.238 morti su un totale di poco più di 13mila residenti), Gioia dei Marsi il 78 percento, Albe il 72 percento, Ortucchio e Pescina il 47 percento. Gli effetti più distruttivi del sisma interessarono non solo l’area del Fucino ma anche la Val Roveto, il Cicolano e la zona di Sora, nel Frusinate. Danni di varia entità furono complessivamente registrati in circa 700 località sparse in un’area molto più vasta, estesa a sei regioni: Abruzzo, Lazio, Molise, Marche, Umbria e alcune località del Casertano, in Campania. Fra le città danneggiate anche Roma, dove decine di edifici e di chiese rimasero lesionati e ci furono alcuni crolli. La scossa principale fu avvertita in una vastissima area della Penisola, fino al Veneto e alla Lombardia verso Nord, e fino alla Puglia e alla Basilicata verso Sud.

Come riporta il noto sismologo dell’epoca Alfonso Cavasino nel suo volume del 1935 sui terremoti d’Italia, il terremoto non fu preceduto da scosse premonitrici, più correttamente note, in lingua inglese, come “foreshockâ€, o da altri segnali. “Sembra che la catastrofe sia avvenuta improvvisamente senza, cioè, alcun segno precursore – scrive Alfonso Cavasino – dappoiché, non solo non fu avvertita in precedenza la benché minima scossetta in tutta la zona mesosismica, ma nemmeno si scorge alcunché nei tracciati dei più delicati apparecchi sismici dei tre Osservatori più viciniâ€. Le repliche si susseguirono per 4 anni. Solo nei primi sei mesi successivi al grande terremoto, l’Osservatorio di Rocca di Papa registrò quasi 1300 scosse di varia intensità.

L’ecatombe di Avezzano che cosa insegna? Da sempre l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia organizza una serie di iniziative per ricordare gli eventi sismici italiani, europei e mediterranei, per accelerare il percorso di sensibilizzazione sociale e personale sul rischio naturale con la consapevolezza che il rispetto della normativa rappresenti la nostra prima e più immediata importante difesa dai terremoti, dalle eruzioni vulcaniche e dagli tsunami. Però delineare il percorso culturale del mondo scientifico e tecnologico nell’arco di un secolo e mostrare i moderni strumenti utili alla società ai fini della mitigazione del rischio naturale, non può logicamente bastare. All’interno di luoghi-simbolo delle tragedia del 1915 e del 2009, con gli effetti del sisma ancora oggi visibili, occorre animare il palcoscenico ideale per la discussione sugli avanzamenti della conoscenza e delle sue applicazioni affinché analoghe immagini non abbiano mai più a riproporsi in futuro.

Bisogna ripercorre dal punto di vista ingegneristico-architettonico, geologico, storico ed economico, i problemi legati alle ricostruzioni post-sisma che hanno investito l’intero secolo breve del Novecento, tra il terremoto della Marsica del 1915 e quello di L’Aquila del 6 Aprile 2009 che è stato sì meno energetico (Mw=6.3) ma egualmente distruttivo (312 morti, 6mila feriti) a causa dell’Uomo! Ogni città del Belpaese dovrebbe dotarsi di un Percorso Culturale Antisismico che preveda l’ideazione e la realizzazione di exhibit interattivi multimediali permanenti con filmati 2D e 3D. Per dare ampio spazio ai terremoti del 1915 e del 2009 attraverso documenti, testimonianze storiche, foto, video e laboratori didattici, con esposizioni e documentari.

Per raccontare, attraverso le immagini e le testimonianze raccolte nei luoghi delle tragedia della Marsica e di L’Aquila, le delocalizzazioni dei centri abitati in seguito ai terremoti del 1915 e del 2009, e gli errori politici e amministrativi. Le iniziative devono rappresentare l’occasione per la diffusione di una cultura della prevenzione in Italia. L’obiettivo è quello di evidenziare il progressivo arricchimento delle conoscenze scientifiche nell’arco di un secolo, per la traduzione delle informazioni acquisite in strumenti normativi a favore di un sempre più efficace e responsabile approccio sociale e personale alla difesa dai terremoti che non si possono ancora prevedere. A fronte dell’innegabile crescita scientifica e normativa in materia di mitigazione del rischio sismico, infatti, è sorprendente che ancora i danni causati dai terremoti siano spesso ingenti.

I faticosi processi di ricostruzione post-sisma avvenuti negli ultimi cento anni, sicuramente più costosi di sempre, dovrebbero costituire un monito per una più efficace cultura della prevenzione. Il territorio abruzzese è caratterizzato da una notevole attività sismica, legata prevalentemente a processi di distensione crostale. Il campo deformativo plio-quaternario, come insegna la Letteratura, è ancora oggi attivo. Il Fucino è un’ampia depressione tettonica circondata da faglie normali e transtensive attive nel Pliocene superiore-Quaternario. È presente anche una fase deformativa compressiva tardo Messiniano-pliocenica inferiore schematicamente attribuita a quattro principali unità, a direzione NNO-SSE, convergenti a Levante: Costa Grande-Monte d’Aria, Monte Cefalone-Monti della Magnola, Altopiano delle Rocche-Gole di Celano e Monte Sirente. Si tratta di strutture compressive che deformano i sottostanti strati Mesozoico-terziari appartenenti a due domini deposizionali.

Castello Orsini prima sisma
Castello Orsini prima del sisma del 1915
Il primo raggruppa una sedimentazione persistente di piattaforma annegata nel Miocene e il secondo delle aree annegate nel Mesozoico con sedimentazione persistente di scarpata e di bacino, quest’ultima immediatamente a NE del Fucino. In corrispondenza del primo dominio, poggiano le calcareniti a briozoi del Langhiano-Tortoniano, mentre vi è una lacuna tra il Cretacico superiore e la fine del Miocene inferiore. Nel secondo dominio, invece, vi è una maggior continuità fino al Miocene medio. Una discrepanza che potrebbe essersi creata in concomitanza della fase disgiuntiva legata al “rifting†liassico che si è mantenuta fino al Miocene medio. Affiorano così depositi continentali alluvio-colluviali attribuibili al Plio-Pleistocene e, in particolare, in corrispondenza dell’antico fondo lacustre con sedimenti limosi, all’Olocene. L’evoluzione quaternaria del Fucino è legata all’attività di due principali faglie, una in direzione NO-SE e immersione occidentale, tangente l’ex lago a Sud-Est, e l’altra, tangente a Nord, in direzione OSO-ENE e immersione meridionale. Il 1915 non fu solo l’anno in cui l’Italia entrò nella Prima Guerra Mondiale.

Nel terremoto del Fucino, il 13 Gennaio, si formarono scarpate di faglia, con fagliazione principalmente olocenica, spaccature del terreno, vulcanelli di fango, frane, variazioni della topografia e cambiamenti chimico-fisici delle acque. L’impianto di drenaggio dell’ex lago sembrò non risentirne molto, ma nel 1920 si decise il rifacimento completo dei tratti di galleria minacciati, con tecniche più evolute rispetto al XIX Secolo. A soli sei anni dal terribile terremoto di Messina, l’Italia tornò ad essere funestata da un altro violentissimo sisma. Il Governo tardò, e molto, a comprendere la vastità dell’area coinvolta e la drammaticità delle conseguenze: l’allarme fu lanciato 12 ore dopo il sisma ed i soccorsi giunsero nelle aree colpite solo all’alba del giorno dopo, il 14 Gennaio 1915. La testimonianza di un sopravvissuto di Avezzano, riportata dal quotidiano Il Mattino, è molto eloquente riguardo all’entità della catastrofe: “Non mi resi subito conto di ciò che era avvenuto; ritenni dapprima che si trattasse del crollo improvviso dello stesso stabilimento dove ero occupato: catastrofe forse avvenuta per lo scoppio di qualche macchina.

Non potevo immaginare quale orribile immane catastrofe si fosse abbattuta sulla ridente Avezzano, così tranquilla e piena di vita. La gamba sinistra mi doleva abbastanza, ma ciò non mi impedì di trascinarmi fino all’aperto. Ma appena fuori, le mie orecchie furono straziate da mille lamenti. Guardai Avezzano e credetti ancora di essere vittima di un orrendo sogno: il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dell’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso. Avezzano era scomparsa ed al suo posto non si scorgevano che pochi muriâ€. Prima del sisma, Avezzano era una cittadina di circa tredicimila abitanti. Il prosciugamento del lago Fucino aveva fatto sentire i primi influssi sull’economia dell’area, non solo nell’agricoltura ma anche nel settore terziario. Il terremoto non colpì solo Avezzano, ma anche tutti i paesi dell’area Fucense, i paesi della Valle Roveto e della media Valle del Liri. Avezzano venne completamente rasa al suolo: in città le vittime furono tantissime. Tra le quali anche lo stesso Sindaco. I pochissimi sopravvissuti, in gran parte feriti, rimasero senza tetto poiché tutti gli edifici crollarono, comprese chiese e castelli, tranne uno al quale fu applicata targa commemorativa di quella terribile vicenda.

Il terremoto isolò completamente la zona e la notizia del disastro fu segnalata solamente nel tardo pomeriggio. I soccorsi, partiti la sera tarda del 13 Gennaio, arrivarono solamente il giorno dopo a causa dell’impraticabilità delle strade causata da frane e macerie. Anche la zona di Sora fu devastate dal terremoto con migliaia di morti e gravissimi danni al patrimonio edilizio di Sora, Arpino, Castelliri, Isola del Liri, Pescosolido. Più di 9mila uomini, fra militari e civili vennero impegnati per i soccorsi, il trasporti dei feriti agli ospedali e la distribuzione dei viveri. A coloro che si distinsero maggiormente fra i soccorritori, venne concessa una medaglia di benemerenza. L’evento mise in luce l’impreparazione dello Stato italiano. Erminio Sipari, deputato del collegio di Pescina, rappresentò la protesta delle vittime che probabilmente si sarebbero potute salvare. Nell’Estate 1914 era iniziata la Grande Guerra e ciò influì pesantemente sull’utilizzo e sulla permanenza della truppa nella regione colpita. Tra le emergenze del terremoto ci fu il problema degli orfani: la gran parte di loro fu affidata all’Opera Nazionale di Patronato “Regina Elena†ed accolti presso Istituti, grazie al lavoro instancabile del prelato Don Orione, sacerdote cattolico di Santa Romana Chiesa, al quale fu affidata la responsabilità di restituire i bambini orfani ai parenti ancora in vita.

Castello Orsini prima sisma
Castello Orsini dopo del sisma del 1915
Ad Avezzano una sola casa rispettò i criteri di costruzione antisismici e fu l’unica, infatti, a restare in piedi. L’economia legata al prosciugamento del lago aveva favorito una diffusa speculazione edilizia e la maggior parte delle abitazioni veniva costruita velocemente con materiali inappropriati. Dunque anche questa fu una delle concause che contribuì ad aumentare le proporzioni del disastro. Nella città di Avezzano il sisma provocò la morte di 9.238 persone. I danni agli edifici furono così gravi da consentire il recupero solo di poche abitazioni. Avezzano perse i suoi monumenti importanti: il Castello Orsini, di cui oggi rimangono solo le murature esterne, e la cattedrale di San Bartolomeo quasi totalmente ricostruita. Per assistere e ospitare i terremotati furono realizzate delle strutture conosciute come Casette Asismiche che sono visibili ancora oggi. Col passare degli anni sono state trasformate in case, stalle o rifugi ed insieme ai pochi ruderi ancora visibili del terremoto, rappresentano la memoria storica, vivente e tangibile della catastrofe di 100 anni fa. Oggi Avezzano è il centro economico più importante della Marsica ed uno dei più importanti della Regione Abruzzo.

È una città in continua espansione: essendo stata completamente ricostruita, è priva di un centro storico vero e proprio e la maggior parte delle abitazioni è costituita da piano terra e primo piano. Solo le costruzioni più recenti presentano più di due piani. Ignazio Silone trascorse l’infanzia nel paese natale abruzzese di Pescina, nella Marsica. Il 13 Gennaio 1915 lo spaventoso sisma provocò nel solo paese natale dello scrittore oltre 3.500 vittime: morirono sotto le macerie la madre ed altri numerosi suoi familiari. Secondino riuscì a salvarsi con il fratello Romolo, il più piccolo della famiglia. Il dramma personale vissuto dal quindicenne Silone lo segnerà per tutta la sua vita e trasparirà anche nella sua produzione letteraria, come ricorda Richard W.B. Lewis: “Il ricordo del terremoto erompe dalle sue pagine con lo stesso significato che per Dostoevskij ebbe l’esperienza di scampare all’ultimo minuto dall’esecuzione capitaleâ€. Così scrive Ignazio Silone al fratello, alcuni mesi dopo il sisma, di ritorno dal seminario di Chieti, dove studiava, al paese natale distrutto: “Ahimè! son tornato a Pescina, ho rivisto con le lagrime agli occhi le macerie; sono ripassato tra le misere capanne, coperte alcune da pochi cenci come i primi giorni, dove vive con una indistinzione orribile di sesso, età e condizione la gente povera.

Ho rivisto anche la nostra casa dove vidi, con gli occhi esausti di piangere, estrarre la nostra madre, cerea, disfatta. Ora il suo cadavere è seppellito eppure anche là mi pare uscisse una voce. Forse l’ombra di nostra madre ora abita quelle macerie inconscia della nostra sorte pare che ci chiami a stringerci nel suo seno. Ho rivisto il luogo dove tu fortunatamente fosti scavato. Ho rivisto tuttoâ€. Il 13 Gennaio si ricorda anche il grande sisma giapponese di Mikawa Bay (Mw=7.1) che nel 1945 causò duemila vittime. Nell’Anno del Signore 2014 l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha rilevato in Italia e dintorni la bellezza di 24.312 terremoti, quasi tremila in più rispetto al 2013. Cinque anni fa, gli effetti sociali e politici (corruzione) del grande sisma di Haiti (Mw=7) mandarono la Creatore 220mila persone. L’ultimo Big One in California risale al 9 Gennaio 1857. La scossa di magnitudo 8 dislocò 360 Km della famosa Faglia di San Andreas, con uno spostamento fino a 9 metri. Nulla al confronto dell’evento di Sumatra, alle ore 6:58 del mattino (00:58 UTC) del 26 Dicembre 2004, quando, nella regione di Banda Aceh in Indonesia, la terra trema.

È l’inizio di una delle maggiori catastrofi naturali degli ultimi 100 anni. La scossa è fortissima, provoca il crollo di numerosi edifici e sembra interminabile come ricorda la pellicola cinematografica di Clint Eastwood, “Hereafterâ€. Il peggio arriva 20 minuti più tardi quando uno tsunami di enormi proporzioni si abbatte sulle coste dell’Indonesia settentrionale, con onde alte fino a 30 metri. Solo in questa regione le vittime saranno più di 173mila. Lo tsunami si propaga per tutto l’Oceano Indiano e dopo circa 2 ore raggiunge le coste dello Sri Lanka (41mila vittime), dell’India (10.700 vittime) e della Thailandia (5.300 vittime). Dopo 3 ore e mezzo, le onde assassine si abbattono sulle Maldive, dopo 6 ore sulle Seychelles e dopo meno di 8 ore sulle coste africane in Somalia. Anche qui, a più di 5mila chilometri di distanza dall’epicentro, si conteranno centinaia di vittime. Il bilancio finale sarà di 230mila morti e più di 22mila dispersi. L’evento è una pietra miliare della sismologia moderna, sia per la qualità e la varietà dei dati raccolti sia per le tecniche di analisi utilizzate. La magnitudo stimata, pari a Mw=9.15, colloca il terremoto di Sumatra al terzo posto tra i più grandi mai registrati in epoca strumentale, dall’inizio del ‘900, dopo il Mw=9.5 del Cile nel 1960 e il Mw=9.2 dell’Alaska nel 1964. Nelle settimane successive all’evento asiatico, gli studi rivelarono le caratteristiche eccezionali del terremoto: mai prima di allora gli strumenti avevano registrato la rottura di una faglia lunga più di 1200 Km, con una durata complessiva del processo di fagliazione di 10 minuti.

E per di più in una zona che, per le sue caratteristiche tettoniche, secondo gli scienziati, non era ritenuta fino ad allora in grado di generare terremoti e dislocazioni di tali dimensioni. I dati GPS mostrarono che la rottura cosismica di questa gigantesca faglia aveva prodotto uno spostamento orizzontale permanente dell’Indonesia settentrionale, rispetto alla Placca Indiana, di alcuni metri in direzione Sud-Ovest. Questi dati, assieme ai sismogrammi e ai mareogrammi registrati dalle reti mondiali, oggi permettono di determinare la distribuzione dello spostamento lungo i 1200 Km della faglia. In particolare si stima che il movimento delle due placche abbia raggiunto i 30 metri in due aree grandi quanto la Regione Toscana. Le immagini dal satellite e le misure effettuate sul posto mostrano che nella provincia indonesiana di Banda Aceh, maggiormente colpita dagli tsunami, l’inondazione raggiunse una quota topografica di circa 35 metri, penetrando nell’entroterra per più di 4 chilometri. Lungo le coste della Thailandia, a Est della faglia, il mare si era dapprima ritirato per circa 20 minuti, lasciando a secco alcune centinaia di metri di spiaggia, per poi tornare indietro e inondare la costa con altezze fino a 18 metri.

Gli tsunami, infatti, sono caratterizzati da treni di onde in sequenza nei quali non sempre la prima onda è la più assassina delle altre. Per la prima volta gli altimetri satellitari (missioni Jason e Topex) normalmente utilizzati per misurare le variazioni del livello degli oceani in ambito oceanografico e climatologico, misurarono direttamente il campo d’onda dello tsunami durante la sua propagazione in mare aperto, rivelando un’altezza dell’onda principale, dal cavo alla cresta, di circa 1.2 metri. L’Oceano Pacifico è il bacino con la più alta pericolosità da tsunami, testimoniata dalla frequenza e dalle dimensioni degli eventi avvenuti nelle ultime decine di anni, come ci ricorda il catastrofico tsunami dell’11 Marzo 2011 in Giappone. Anche il Mare Mediterraneo, avvertono gli scienziati, non è esente da questo tipo di rischio. Dal catalogo NOAA degli tsunami avvenuti a livello mondiale tra il 1650 Avanti Cristo e l’Anno Domini 2008, risulta che il 14 percento dei maremoti ha interessato il Mar Mediterraneo, mentre il 74 percento ha colpito l’Oceano Pacifico.

Solo per citarne alcuni si possono ricordare gli tsunami del 365 d.C. a Creta in Grecia, dell’Anno Domini 1693 nella Sicilia Orientale, del 1908 a Messina e Reggio Calabria, e il più recente del 2003 a Boumerdes in Algeria. Per fare fronte a questo pericolo reale, negli ultimi due anni l’Ingv ha costruito nella propria sede di Roma, il Centro di Allerta Tsunami (CAT), entrato in fase pre-operativa dal Primo Ottobre 2014. Al CAT, presidiato tutti i giorni dell’anno, 24 ore al giorno, da ricercatori e tecnici dell’Ingv, vengono analizzati in tempo reale i dati di tutti i forti terremoti nel Mondo e in particolare nel Mare Mediterraneo. Grazie alla collaborazione tra Ingv e Ispra, il CAT riceve e analizza in tempo reale i dati della Rete Mareografica Nazionale e delle altre griglie mareografiche mondiali. Nel Mediterraneo però non esistono ancora le famose boe oceanografiche satellitari che consentono di riconoscere in tempo reale il passaggio di un’onda di tsunami. Nel Pacifico e negli altri oceani della Terra, la scienza e la tecnologia hanno fatto enormi passi avanti in questi dieci anni, aumentando decisamente la capacità di individuare in tempi rapidi gli tsunami e prevederne gli effetti. L’entrata in vigore della Lelle 183/89 sulla difesa del suolo e dei successivi DPR 85/91 e 106/93, hanno sancito la nascita e individuato i compiti del Dipartimento per i Servizi Tecnici Nazionali (DSTN) nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri, successivamente confluito presso  l'’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale.

L’ISPRA è stato istituito con la Legge 133/2008 di conversione, con modificazioni, del Decreto Legge 25 Giugno 2008, n. 112. Il Servizio Mareografico Nazionale (SMN) ha ricevuto un impulso che, oltre a promuoverne un’azione incisiva nel settore propriamente mareografico, ne ha considerevolmente ampliato le attività nel campo della misura di onde anomale. Compito del SMN è quello di provvedere al rilievo sistematico ed alla elaborazione delle grandezze relative al clima marittimo, allo stato dei litorali ed ai livelli marini, di provvedere alla pubblicazione sistematica degli elementi osservati ed elaborati e di cartografia e di predisporre criteri, metodi e standard di raccolta, analisi e consultazione dei dati relativi all’attività conoscitiva svolta. Il SMN fornisce dati, pareri e consulenze a chiunque ne faccia richiesta e supporta gli enti locali e gli altri enti pubblici e di diritto pubblico. Nel campo marittimo il SMN ha assunto la gestione della Rete Ondametrica Nazionale (RON) realizzata a suo tempo dal Ministero dei Lavori Pubblici, ed ha provveduto allo sviluppo e potenziamento  della  nuova Rete Mareografica Nazionale (RMN). La Rete Mareografica Nazionale è composta di 36 Stazioni di misura uniformemente distribuite sul territorio nazionale ed ubicate prevalentemente all’interno delle strutture portuali. Questa rete sostituisce integralmente il sistema di rilevazione mareografico preesistente. Per tutte le Stazioni della rete mareografica RMN (ad eccezione delle Stazioni di Ginostra e Strombolicchio, queste, per l’ubicazione particolare del sensore di livello, hanno in dotazione sensori piezometrici e tubi di calma aperti per poter registrare variazioni di livello anche molto repentine) dal mese di Gennaio 2010 al completamento dell’attività di aggiornamento e potenziamento, il parametro di livello idrometrico pubblicato viene monitorato con un nuovo sensore di livello a microonde (radar) con precisione millimetrica.

Il sensore radar è installato in coppia con un secondo sensore di livello a galleggiante basato su tecnologia “shaft-encoder†con la funzione di back-up, e inoltre è mantenuto in funzione il sensore idrometrico storico “ad ultrasuoni†presente nella RMN dal 1998. Dal confronto delle misure di questi 3 sensori, di cui quello ad ultrasuoni viene usato come verifica, ISPRA è in grado di ottenere una precisa taratura del sensore radar tale da garantire una perfetta continuità delle serie dati di livello. Ogni sensore di livello è riferito ad una staffa mareografica la cui quota è stata determinata facendo riferimento alla rete altimetrica realizzata dall’IGM e per precisione collegandosi al più vicino caposaldo IGM. Le stazioni sono dotate anche di un sensore anemometrico (velocità e direzione del vento a 10 metri dal suolo), di un sensore barometrico, di un sensore di temperatura dell’aria e di un sensore di temperatura dell’acqua, oltre ad un sensore di umidità relativa. Inoltre 10 Stazioni sono state dotate di una sonda multiparametrica per la valutazione della qualità dell’acqua. I parametri misurati sono: temperatura dell’acqua, pH, conducibilità e redox. Tutte le Stazioni sono dotate di un sistema locale di gestione e memorizzazione dei dati e di un apparato di trasmissione UMTS-LTE in tempo reale alla sede centrale del SMN a Roma. Inoltre in 9 Stazioni strategiche per la misura di fenomeni particolari (onde anomale), è presente un secondo sistema di trasmissione dati via satellite con tecnologia IRIDIUM che garantisce il collegamento anche in presenza di situazioni di black-out del sistema UMTS-LTE. Da quando la nuova Rete Mareografica Nazionale è pienamente operativa, il SMN mette a disposizione degli utenti informazioni aggiornate relative a serie storiche, osservazioni in tempo reale, previsione dei dati di marea astronomica, analisi dei dati a fini progettuali e scientifici.

I dati mareografici e le costanti di marea locali aggiornate sono disponibili: il SMN ha inoltre provveduto ad effettuare un’operazione di recupero e riorganizzazione dei dati storici della rete preesistente, in forma digitale, in modo da poter affiancare alle osservazioni storiche quelle rilevate dalla nuova Rete nazionale. La Rete Mareografica Nazionale utilizza esclusivamente Stazioni di monitoraggio alimentate da energia solare prodotta con pannelli fotovoltaici. Occorre fare molto di più per evitare le catastrofi del futuro, magari in piena stagione estiva, con milioni di persone in spiaggia sulle coste italiane e mediterranee, inconsapevoli del rischio tsunami! Nella regioni italiane la maggior parte dei terremoti avviene entro i 20 Km di profondità, nella crosta superiore. Tuttavia, a causa dei complessi fenomeni geologici che hanno portato alla sua attuale configurazione, la nostra Penisola è interessata in alcune aree da terremoti intermedi e profondi fino a 600 Km. Questa sismicità, tipica delle zone di contatto tra placche oceaniche e continentali come quelle del margine dell’Oceano Pacifico e dell’Oceano Indiano, si manifesta nel nostro Belpaese laddove la litosfera del Mar Ionio sprofonda sotto l’Arco Calabro e il Tirreno Meridionale. Il Mar Ionio, infatti, rappresenta il relitto abissale di un antico Grande Oceano che occupava la regione del Mediterraneo e che è stato subdotto e in parte riassorbito nel mantello terrestre per decine di milioni di anni, prima sotto le Alpi e poi sotto gli Appennini. Nel corso dell’Anno Domini 2014 la Rete Sismica Nazionale dell’Ingv ha localizzato 324 terremoti profondi (Z=80 km) nel Mar Tirreno meridionale, con un numero molto superiore a quello degli anni precedenti.

I terremoti di magnitudo maggiore o eguale a 3 sono stati 33, anche questi in numero maggiore rispetto agli anni precedenti. La maggiore quantità di piccoli terremoti del 2014, secondo gli scienziati, potrebbe in parte essere spiegata con una maggiore sensibilità della Rete Sismica Nazionale. Nel corso degli ultimi 10 anni, infatti, la Rete è migliorata progressivamente, non solo nel numero e nella qualità degli strumenti usati ma anche nei sistemi di riconoscimento automatico e di revisione degli eventi sismici (Amato and Mele, 2009). Se si considera il numero dei terremoti con magnitudo superiore o pari a 3, si continua a osservare un aumento negli anni ma più contenuto. Fenomeno che potrebbe rientrare nelle oscillazioni statistiche: sia il 2007 sia il 2012 hanno avuto, ad esempio, 25 terremoti profondi contro i 33 del 2014. Il numero basso del 2005 (10) riflette probabilmente il fatto che in quell’anno, in particolare il 16 Aprile, si passò al nuovo sistema di analisi dei dati della Rete, che comportò un brusco aumento della capacità di localizzare i piccoli terremoti. Al momento il campione statistico è troppo piccolo per trarre delle conclusioni definitive. Il nuovo anno 2015 si è aperto con due interessanti terremoti profondi. Il primo di M 4.2 è avvenuto il 1° Gennaio alle ore 20:48 sotto l’area molisana, a 330 Km di profondità. La sua posizione ha un po’ sorpreso gli scienziati, in quanto è stato localizzato circa 120 Km più a Nord della maggior parte dei terremoti profondi localizzati negli ultimi 30 anni. Il secondo evento abissale del nuovo anno, di M 3.9, è avvenuto il 2 Gennaio, alle ore 9:31, a 300 Km di profondità al largo della costa del Cilento, una zona famosa per i terremoti profondi. L’ubicazione dell’epicentro del primo terremoto, se può sorprendere per la sua posizione, s’inquadra bene nelle conoscenze sulla struttura profonda e della geodinamica della regione.

È noto infatti che il processo di subduzione dell’Oceano Neo-tetideo, iniziato circa 35 milioni di anni fa e di cui l’attuale Mar Ionio è l’ultimo frammento ancora visibile, ha portato alle profondità di oltre 200-300 Km intere porzioni di litosfera oceanica dei bacini Ligure e Ionico, come mostrano i modelli di tomografia sismica. L’ipocentro ricade nella zona di alta velocità delle onde “Pâ€, si approfondisce da Est a Ovest e rappresenta la traccia della litosfera oceanica subdotta. È possibile che quest’ultima conservi in alcuni punti la rigidità sufficiente per dar luogo a terremoti sia pure sporadicamente. Nonostante la magnitudo di 4.2 il terremoto non è stato risentito dalla popolazione a causa della sua grande profondità ipocentrale. Il tragitto di oltre 330 Km percorso dalle onde sismiche dall’ipocentro alla superficie, determina una forte attenuazione dell’energia elastica del terremoto che in un caso come questo diventa impercettibile anche agli strumenti. La Storia sismica italiana ricorda l’evento del 16 Dicembre 1857, alle ore 20:15, 20:18 e 21:15 (Tempo Medio di Greenwich, GMT), quando tre violentissime scosse di terremoto devastarono una vasta area della Basilicata e una parte della Campania. In particolare furono colpite l’attuale provincia di Potenza e la zona centro-orientale di quella di Salerno. I danni più gravi furono risentiti nelle zone montuose, in particolare nell’alta Val d’Agri. Più di 180 località, comprese in un’area di oltre 20mila chilometri quadrati, subirono danni gravissimi al patrimonio edilizio, tanto da rendere inagibili gran parte delle case. Entro quest’area, più di 30 centri subirono danni disastrosi: interi paesi e villaggi sparsi su una superficie di 3.150 Km quadrati furono rasi al suolo. Negli attuali comuni di Montemurro, Grumento Nova (allora Saponara), Viggiano, Tito, Marsico Nuovo e Polla, si ebbe il maggior numero di vittime.

Complessivamente vi furono 3.313 case crollate e 2.786 divennero pericolanti e inabitabili. Spaventoso fu anche il bilancio dei morti: secondo le stime ufficiali 10.939, di cui 9.732 nelle province lucane (il 2.6 percento della popolazione) e 1.207 nella provincia di Salerno. Stime non ufficiali, ma più realistiche, portano a 19mila il numero totale di vittime (Guidoboni e Ferrari 2004, Guidoboni et al. 2007). Le prime notizie sul terremoto sono contenute in una lettera al Giornale del Regno delle Due Sicilie del Direttore dell’Osservatorio Astronomico di Napoli, Leopoldo del Re, pubblicata il 17 Dicembre, nella quale si afferma che “alle 20:15 e due minuti dopo si erano sentite due forti scosse di terremotoâ€. Il Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani, che riprende lo studio di Guidoboni ed altri (2007), classifica il sisma con un’intensità epicentrale pari al grado XI della Scala Mercalli-Cancani-Sieberg (MCS) e una stima della magnitudo momento equivalente Mw=7,03. Già il 20 Dicembre, quattro giorni dopo il terremoto, Alphonse Bernoud, un fotografo francese operante a Napoli, partì per documentare con la fotografia lo stato dei paesi colpiti. Tornò ben altre tre volte nei luoghi del disastro, realizzando il primo reportage di un terremoto nella storia. Al termine di ogni sua spedizione, il fotografo metteva in vendita le foto, destinando parte del ricavato alle popolazioni colpite dal sisma. I primi resoconti del terremoto rimbalzarono su tutti i più importanti quotidiani e periodici illustrati europei, in particolare di Londra e Parigi. Il 24 Dicembre e nei giorni successivi, il Times diede testimonianze sempre più dettagliate del terremoto, e il 9 e 30 Gennaio 1858 il periodico parigino L’Illustration e poi l’Illustrated London News, pubblicarono le prime immagini delle devastazioni nelle aree del Vallo di Diano e dell’Alta Val d’Agri.

Gli articoli dell’Illustration furono firmati da Marc Monnier, un giornalista-scrittore che operava a Napoli, mentre le incisioni sono tratte dalle fotografie stereoscopiche dei primi reportage fotografici di Bernoud, condotti fin dai primi giorni successivi alla tragedia. Le prime località documentate dalle immagini si riferiscono ai luoghi più vicini a Napoli, nel Vallo di Diano: Pertosa e Polla (L’Illustration, 9 Gennaio 1858). Poi Bernoud riuscì a raggiungere anche Auletta, Atena Lucana, Tito, Vignola (Pignola), Paterno, Marsico Nuovo, Potenza (L’Illustration, 30 Gennaio 1858). A differenza della tradizione storiografica di parte borbonica e di quella liberale, che ricorda “cospicui interventi governativiâ€, in realtà l’intervento del governo borbonico fu irrilevante quando non dannoso. Solo a fine Marzo l’Intendenza di Basilicata comunicò i danni subiti e, a riprova della tragica situazione della popolazione a oltre tre mesi dal sisma, fu evidente il problema del seppellimento dei morti che nei carteggi ufficiali erano ormai sbrigativamente chiamati “carogneâ€! Queste povere anime, in verità, erano ancora per la maggior parte in decomposizione sotto le macerie di paesi nella morsa del rigido e piovoso inverno lucano. Era opinione di alcuni osservatori stranieri che quello dei Borboni fosse un regno in rovina. Le ragioni di quel lunghissimo processo di degrade, erano indicate nella cattiva amministrazione, nell’ingiustizia eretta a sistema, nella prevaricazione continua e nell’oscurantismo culturale predominante. La critica era spesso un attacco politico diretto, elemento che innescava durissime reazioni e spingeva a difese d’ufficio. La polemica sul ruolo degli interventi governativi, fu lunga a spegnersi. Teofilo Roller, un britannico protestante che assieme al suo connazionale Major si occupò della distribuzione di aiuti privati stranieri, accusò esplicitamente il governo borbonico di incapacità, ritardi, omissione di soccorso, avarizia (Guidoboni e Ferrari, 2004).

Di Montemurro, definito da Robert Mallet “città dei morti†(Mallet 1862), uno dei paesi più colpiti, Roller diede una tragica descrizione, avendo fatto una ricognizione personale nell’area del terremoto (Roller 1861): “Arrivati molto tempo dopo il disastro [ossia nel febbraio 1858], i soldati hanno costruito due o tre capanne [le fonti ufficiali ne dichiaravano 426], è vero, ma le autorità le hanno impiegate a loro proprio uso. In quanto alla popolazione, non ne sono affatto preoccupati, sotto lo stesso pretesto che essa era tutta sotto terra, e che 5.000 abitanti erano morti sui 7.500 che contava la città. Questa cifra è spaventosa, ma dolorosamente vera, ciò che è vero altresì, è il modo con cui le autorità e la truppa han reso gli ultimi doveri ai morti, e soccorso i vivi. Di quelle 5.000 vittime, 2.000 appena sono state tratte da quel cimiteroâ€. Tragici furono gli effetti del sisma sui paesi più colpiti dell’alta Val d’Agri e del Vallo di Diano. A Montemurro (XI MCS) si registrò la completa distruzione dell’abitato, ridotto a un cumulo di macerie. Quasi tutti gli edifici crollarono completamente. Gli ultimi resti di costruzioni furono abbattuti da due forti repliche avvenute il 26 Dicembre 1857. Rimasero in piedi solo un palazzo e il convento dei Frati Minori, comunque gravemente lesionati, e tre campanili crollati parzialmente. Divamparono numerosi incendi. A Grumento Nova (al tempo Saponara; XI MCS) si ebbe la completa distruzione del paese. Gravemente danneggiato anche il castello Ciliberti. Solo il lato Est dell’abitato presentava ancora qualche muro non crollato, mentre alla base della collina su cui sorgeva il centro, una casa a due piani rimase in piedi. Qui il numero di vittime fu elevato perché molti in fuga dopo la prima scossa rimasero intrappolati nelle strade troppo strette. A Viggiano (X MCS) gravissimi furono i danni, molte case crollarono completamente e altre parzialmente in particolare nella parte alta dell’abitato. I danni furono aggravati da un incendio che seguì le due scosse principali. Brienza (X MCS) subì il crollo di gran parte delle case e parzialmente anche del castello.

A Marsico Nuovo (X MCS) due terzi delle case risultarono crollate o crollanti. A Paterno (X MCS) gravissimi danni. A Marsicovetere (IX-X MCS) si ebbe la quasi completa distruzione dell’abitato. A Sarconi (X MCS) la quasi completa distruzione dell’abitato. Anche la chiesa crollò completamente ad eccezione della parte bassa del campanile. A Spinoso (X MCS) la quasi completa distruzione dell’abitato. Le poche case rimaste in piedi risultarono gravemente lesionate o crollanti. A Tramutola (X MCS) crollarono circa 500 case con il danneggiamento delle altre. Ben 200 case furono giudicate pericolanti. Crollarono l’abside e l’organo della Chiesa Madre i cui muri furono tutti gravemente fessurati e crollò parzialmente quella del Rosario. Il Palazzo Marotta di costruzione più robusta fu invece solo lievemente danneggiato. Ad Atena Lucana (X MCS) il terremoto causò danni gravissimi: crollarono 932 case e 812 risultarono pericolanti. Le strade si riempirono di macerie, cavi e tralicci crollati. Pochi danni subirono invece le casette estive a un solo piano che sorgevano ad un’altitudine più elevata rispetto al centro abitato ed anche la cattedrale, grazie alla sua buona costruzione. Vi furono 55 morti e 29 feriti su una popolazione di 4.403 abitanti. A Polla (X MCS) il sisma causò la quasi completa distruzione dell’abitato: crollarono 1.300 case e 335 risultarono pericolanti, causando oltre 2mila vittime su circa 7mila abitanti. Crollarono la chiesa della Trinità e il castello, fu gravemente danneggiato il palazzo Palmieri. Gli effetti furono meno distruttivi nella parte in piano del paese. Una fonte registra 250 feriti su 6.644 abitanti. A Pertosa (IX-X MCS) il terremoto causò la quasi completa distruzione del paese che fu uno dei più danneggiati del Vallo di Diano. Vi furono numerose vittime: una fonte ne registra 150, con 40 feriti, su una popolazione di 1.179 abitanti. Furono particolarmente colpite le zone Est e Ovest dell’abitato: 176 case crollarono, in quasi tutte si verificò il crollo dei tetti e dei pavimenti più pesanti, e 133 risultarono pericolanti. Dopo il crollo, la parte in legno delle case s’incendiò e causò altri morti.

Alcune case di recente costruzione, basse e fatte con pietre squadrate e con stipiti in lunghi blocchi, resistettero bene e subirono solo numerose crepe. Nell’area Sud del paese i danni furono più contenuti. A Padula (IX MCS) il sisma causò danni gravissimi particolarmente nella ripida zona Ovest e Sud del paese: 171 case crollarono e 50 divennero pericolanti. Vi furono 32 morti e 10 feriti su 8.125 abitanti. Gravi danni strutturali anche alla famosa Certosa di San Lorenzo. Le fonti storiche documentano una sequenza sismica di circa un centinaio di scosse, comprese quelle distruttive. Le repliche si susseguirono frequenti nel corso del mese di Dicembre. In particolare quelle avvenute il 26 Dicembre, alle ore 2 e alle ore 5, causarono il crollo delle ultime costruzioni ancora in piedi a Montemurro. Nei mesi successivi le scosse continuarono fino al Maggio 1859. Tra queste, quella avvenuta l’8 Marzo 1858, alle ore 0.15 GMT, causò danni a Potenza e a Tramutola In circa 30 località, fra Atella, Polla e Latronico, il terremoto causò vasti movimenti franosi, smottamenti e abbassamenti del terreno, con l’apertura di numerose spaccature, di cui una di 270 metri a Polla. Molte sorgenti aumentarono la loro portata. A Marsico Nuovo, Moliterno, Salandra ed Episcopia vi furono esalazioni gassose e solforose. Nei pressi di Viggiano si verificò una frana sismo-indotta documentata da un disegno di Mallet allegato al suo Rapporto (Mallet 1862). La mappa tratta da Valensise e Guidoboni (2000) riporta la distribuzione geografica degli effetti sull’ambiente causati da questo terremoto. Il 9 Febbraio 1846, Robert Mallet, giovane ingegnere irlandese, presentò alla Royal Irish Academy un rapporto sulla dinamica dei terremoti (“On the dynamics of earthquakesâ€). Lo studio, del tutto originale, manca tuttavia di una verifica sperimentale: il laboratorio naturale rappresentato da un terremoto di grande intensità, molto raro nelle Isole britanniche. Le prime notizie del terremoto riportate dal Times il 24 Dicembre 1857 fornirono l’occasione che Mallet attendeva da tempo. Richiese immediatamente alla Royal Society di Londra un finanziamento di 150 sterline per una missione tesa a decifrare la “terribile iscrizione†che il terremoto aveva così drammaticamente scritto nel territorio dell’alta Val d’Agri e del Vallo di Diano.

Ottenuto il sostegno economico della Royal Society, il 27 Gennaio 1858 Mallet partì per Napoli dove arrivò il 5 Febbraio. Qui attese fino al 10 Febbraio l’autorizzazione del Governo borbonico a compiere la sua missione. Nella “noiosa attesaâ€, Mallet vide le fotografie di Bernoud ed ebbe contatti con un altro fotografo, Claude Grillet, con il quale valutò costi e tempi di una ricognizione fotografica successiva alla sua missione. Con diverse lettere ufficiali indirizzate alle varie autorità locali di tutte le province che intendeva attraversare, contenenti l’ordine di fornirgli tutta l’assistenza possibile, Mallet raggiunse rapidamente “l’area d’azione dell’incredibile violenza del terremotoâ€. Percorse circa 500 Km in 15 giorni, lungo strade militari e sentieri impervi, con passaggi resi particolarmente difficili e pericolosi dalle avverse condizioni atmosferiche. Raccolse informazioni da persone che parlavano numerosi dialetti e provò le emozioni più diverse di fronte alla drammaticità di paesi distrutti e di popolazioni allo stremo. L’ingegnere irlandese rientrò a Napoli il 28 Febbraio e vi trovò un telegramma da Londra che lo autorizzava ad affidare un reportage fotografico a Grillet a corredo della sua missione. Il 7 Marzo Mallet partì per fare rientro in Inghilterra e nei primi giorni di Aprile 1858 inviò al Presidente della Royal Society una breve Relazione della sua missione, conservando i dettagli scientifici e le conclusioni per una trattazione più sistematica. Finì così l’esperienza sul campo, la tanto attesa occasione di osservare nel “laboratorio terremotoâ€, ed ebbe inizio l’avventura della pubblicazione della Relazione estesa della sua spedizione scientifica, con cui Mallet definì Sismologia la scienza dei terremoti (Mallet 1862).

L’evento riveste dunque una particolare importanza almeno per tre aspetti: è uno dei più distruttivi della Storia sismica italiana degli ultimi 25 secoli; è il primo al mondo documentato fotograficamente; è il primo per cui la Scienza dei terremoti è definita come Sismologia.

Un’avventura degna di un kolossal cinematografico. La memoria del terremoto della Marsica, di L’Aquila e di tutti gli altri, non può tradursi o peggio ridursi in semplici convegni, simposi, cerimonie, commemorazioni e tavole rotonde obbligatorie di circostanza e dovere istituzionale, magari per elaborare incompetenze, omissioni, lutti passati e futuri. Per poi dimenticare, omettere di finanziare adeguatamente la ricerca scientifica e tecnologica nella Legge Finanziaria di Stabilità. E così ricaricare la rivoltella per la solita roulette russa farcita dalle incredibili dichiarazioni di impresentabili falsi profeti in salsa italiota, in attesa della prossima colossale tragedia causata dalla cialtrona politica corrotta dell’Uomo e non dalla Natura. I cittadini ancora non sanno cosa significa vivere in un Belpaese come l’Italia, esposto per la gran parte del suo territorio al rischio sismico.

© Nicola Facciolini


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